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I MEGALITI DI NARDODIPACE

  • Immagine del redattore: Gianni Ianni Palarchio
    Gianni Ianni Palarchio
  • 11 mag 2018
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 16 mag 2018


Sito A, località Sambuco Nardodipace

Provenendo da Serra San Bruno, un chilometro oltre il piccolo paese di Nardodipace, si ergono nella fitta boscaglia imponenti megaliti, strutture ciclopiche che non possono essere altro che l’opera immane di un popolo antico che si stanziò in Calabria in un epoca lontanissima, circa 5000 anni prima di Cristo.

Questa storia, però, ha inizio nel 1972, trent'anni prima che i megaliti stessi fossero scoperti e ammirati. Durante l’alluvione che colpì Girifalco in quell'anno, l’avvocato Mario Tolone Azzariti, in una fenditura di circa 6 metri apertasi nella roccia, intravide, coperto dal fango, un volto umano scolpito nella pietra dai tratti somatici ben diversi rispetto a quelli degli achei che diedero origine alla Magna Grecia e che noi calabresi siamo più abituati a riconoscere. Da allora la collezione Tolone Azzariti si è arricchita di ben 800 reperti[1] di una fattura tale che, a dar credito agli studiosi, potrebbe essere la testimonianza di un popolo antichissimo che abitò la Calabria molto prima della colonizzazione greca. La figura di maggior importanza, tanto per i reperti della collezione Azzariti quanto per le imponenti vestigia di Nardodipace, è il prof. Domenico Raso che ha speso tutta la sua vita per far luce sulla civiltà che abitò le Serre calabresi in un periodo antichissimo. Tra i reperti della collezione Tolone, vennero rinvenute 12 tavolette d’argilla con misteriosi segni paragonabili alle più famose incisioni rupestri definite “petroglifi”. Il prof. Raso, in numerose pubblicazioni su riviste di settore e libri di discreto successo, definì questi petroglifi un vero e proprio linguaggio, una forma di scrittura antica e sconosciuta appartenente ai “popoli del mare”, la civiltà dei Pelasgi. Si tratta di un’antichissima cultura del Neolitico che Omero nell’Odissea chiamò Feaci. Questi, intorno al 7000 a.C., come lo studio accurato dei reperti Azzariti ci ha restituito,  fuggirono dall’Asia Minore, e più precisamente dal bacino del mar Nero, per sottrarsi a devastanti cataclismi e rifugiarsi in diverse località del mediterraneo, tra le quali la Calabria.

Per quanto nel mondo accademico convenzionale rivestano un ruolo storico molto controverso, i Pelasgi hanno lasciato alcune inconfutabili tracce della loro presenza sul territorio europeo. Basti pensare alle numerose città ciclopiche e mura megalitiche che hanno disseminato nelle loro diverse migrazioni sulle coste del Mediterraneo, nell’Europa centrale e nel vicino Oriente. La loro storia è talmente antica che esonda dall’alveo del teorico per sfociare nel mare della leggenda e del mito. Possono essere considerati i continuatori della grande civiltà del mar Nero che sorse diverse migliaia di anni prima della nostra era a seguito di eventi straordinari descritti molto dettagliatamente nel mito di Fetonte[2]. Quest’ultimo racconta della straordinaria città megalitica di Rama edificata sul luogo della discesa del carro celeste su cui viaggiava Fetonte, vale a dire la zona oggi chiamata Valle di Susa, in  Piemonte. Secondo il mito questa città fu distrutta e ricostruita tre volte nell’arco di diversi millenni; i Pelasgi furono la popolazione che diedero vita alla prima ricostruzione della città al termine della migrazione dalle loro terre di origine per salvarsi dalla catastrofe ambientale già accennata.

L’esodo pelasgico interessò l’intera penisola italica, dall’Adriatico settentrionale verso l’interno e fin sulle coste tirreniche e l’entroterra dell’Italia centrale, in particolare nel Lazio. Fu in questa regione che diedero vita alle “città cosmiche”, centri urbani circondati da mura ciclopiche con la peculiarità di essere fra loro distribuite sul territorio secondo precisi canoni cosmologici che riproducono in modo sorprendentemente esatto alcune costellazioni. Tra le città laziali che maggiormente si ricordano c’è sicuramente Alatri, ma non si possono ignorare anche Anagni, Arpino, Atina, Ferentino e moltissime altre. La realizzazione architettonica delle strutture lascia supporre una significativa padronanza nell’uso della pietra che si ritiene propria delle popolazioni che hanno vissuto dal tardo Neolitico, nota anche come età della Pietra levigata, all’Eneolitico in cui alla pietra si affiancano il rame, il bronzo ed il ferro. Il passaggio, in sostanza, dall’età della Pietra a quella dei Metalli, dalla Protostoria all’era della lavorazione dei metalli, dalle industrie litiche alla metallurgia. I Pelasgi erano abilmente calati in questo contesto storico tanto da spingersi sempre più in fondo nel territorio italico alla ricerca di materie prime necessarie alla costruzione delle loro opere megalitiche. Probabilmente fu questo il motivo per cui, all’incirca dal V al III millennio a.C.,  si spinsero verso sud giungendo nelle Serre Joniche calabresi ricche di rame, alluminio e argento.

Nell’agosto 2002 un colossale incendio nelle Serre Joniche, nel territorio di Nardodipace, incenerì la folta vegetazione che circondava alcune strutture in pietra di eccezionale grandezza e di fattura presumibilmente umana. I quotidiani nazionali e locali pubblicarono un articolo che fece scalpore dichiarando il ritrovamento in Calabria di un importante sito megalitico attirando, così, l’attenzione del mondo accademico archeologico e degli studiosi amatoriali. La scoperta aveva dell’incredibile poiché il sito, per via delle dimensioni straordinarie, per la stupefacente conservazione e per la sua apparente natura antropica era stato accostato alle famose costruzioni megalitiche del Nord Europa come la più conosciuta Stonehenge. Appena la notizia si diffuse, provocando una risonanza senza precedenti per la tranquilla popolazione locale, venne alla ribalta l’esistenza di un’altra già nota conformazione rocciosa vicinissima a quella appena ritrovata ma che nessuno aveva mai interpretato secondo i connotati del complesso megalitico. Da quel periodo, sul teatro di questi due colossi di pietra (Sito geologico A, loc. Sambuco e sito geologico B, loc. Ladi), si sono succeduti molti studiosi provenienti da tutto il mondo, le cui divergenti opinioni sulla natura delle gigantesche pietre hanno innescato un acceso dibattito, come spesso accade di fronte a ritrovamenti che possono incidere sulle verità scientifiche convenzionali e ortodosse.

La scoperta fu prontamente segnalata al prof. Alessandro Guerricchio della facoltà di Geologia dell’Università della Calabria che, a seguito di due sopralluoghi effettuati personalmente presso i siti, divenne un convinto assertore della natura antropica dei complessi megalitici a differenza della Soprintendenza Archeologica che, invitata a studiare le pietre, attribuì la conformazione di quest’ultime ad una strana coincidenza morfologica del tutto naturale. Anche un sopralluogo effettuato dai ricercatori della Commissione per lo Studio e la Catalogazione del Megalitismo dell’Ecospirituality Foundation ha confermato il parere del prof. Guerricchio adducendo la più che probabile presenza dell’uomo nella costruzione di questi due enormi complessi.

Le due strutture misurano circa 8 e 6 metri in altezza con una base di decine di metri costituita da pietre gigantesche a forma poligonale pesanti fino a 200 tonnellate che, come si riscontra in tutti gli insediamenti megalitici pelasgici,  sono assemblate con una precisione stupefacente tale da non permettere di infilare tra i loro interstizi neanche un foglio di carta. Un elemento importante per cercare di far luce sulla natura di queste conformazioni è che entrambi i complessi megalitici sono ubicati esattamente sulla sommità di collinette apparentemente artificiali, per via dei numerosi massi squadrati disordinatamente accatastati che sembrano costituirle.

Sito B, località Ladi

In seguito ad una campagna di scavi eseguita dallo stesso prof. Guerricchio, accompagnato da altri eminenti studiosi tra i quali figurava Vincenzo Nadile che per primo, nel 2002, segnalò la scoperta, i megaliti sarebbero risultati ammassi rocciosi disposti originariamente in un preciso ordine ed estratti presumibilmente da alcune cave poste a circa 1.353 metri di altezza sul Passo Pietra Spada. Il trasporto di questi megaliti, lavorati e rifiniti sul luogo dell’estrazione, avveniva attraverso delle piste di massi squadrati allineati a tracciare i percorsi, fatti scendere attraverso l’ausilio di rulli lignei e accompagnati lentamente nel sito di edificazione della struttura. Notevoli dovevano essere le forze umane impiegate per trasportare ed erigere queste strutture che comunemente, come per Stonehenge, sono state definite “triliti”, costruzioni architettoniche elementari costituite da due pietre poste verticalmente e infisse al suolo, e da una terza posata orizzontalmente su di esse. Talmente laboriosa e faticosa l’edificazione di queste imponenti strutture da lasciare supporre la matrice cultuale, sacrale e sepolcrale, e non difensiva dell’opera. L’assenza di mura di collegamento tra le strutture megalitiche induce ad escludere che si sia trattato, infatti, di una semplice cinta muraria e di fortificazioni difensive.  Indicazioni in prescrittura su alcune rocce di entrambi i geositi (Sambuco e Ladi) farebbero supporre, inoltre, che potrebbe trattarsi delle grandi sepolture dei Re Pelasgici che i Popoli del mare avrebbero realizzato attorno al Piano di Cianu (Ciano è oggi il nome del capoluogo comunale di Nardodipace).

La storia dei ritrovamenti megalitici di Nardodipace ha costituito la chiave di volta di un lunghissimo ed appassionante studio condotto da decenni dall’antropologo Domenico Raso sulle popolazioni pelasgiche presenti nelle Serre Joniche. Le sue ricerche erano basate sulla decifrazione di misteriose segnature incise su reperti di terracotta ritrovate a Girifalco, in provincia di Catanzaro, all’inizio degli anni ‘70 e appartenenti alla collezione Tolone Azzariti, un avvocato appassionato di archeologia che ne fece la scoperta. I reperti in questione sono davvero straordinari per la loro unicità e per l’importanza delle incisioni che recano: 12 tavolette d’argilla con misteriosi segni identificati come “petroglifi”, un astrolabio, una scultura raffigurante un personaggio seduto che sembra un re, un oggetto di argilla a forma conica recante una serie di incisioni, steli, dischi solari e numerosi altri oggetti. Tra questi spicca la testa in calcarenite[3]color oro di un Sovrano del Mare, denominato “Il Re dei venti anni” dove, secondo la lettura del prof. Raso, è raffigurato “il regno del sole delle Serre” posto ad Oriente tra Squillace e Girifalco, ed a Sud tra Marina di Caulonia e Nardodipace definita, quest’ultima, antica “città della Porta” e Tempio della Natura che si lega al concetto di soglia, rinascita, sepolcro. Questi segni grafici sono stati interpretati come una prescittura pelasgica e i disegni estrapolabili dal modellato delle statuette sono stati individuati come dei “falsi figurativi”, vere e proprie mappe e indicazioni topografiche eseguite per contenere e tramandare informazioni ben precise sulle vicende ma anche sui costumi e tradizioni di quel popolo in fuga.

Secondo le traduzione di Domenico Raso, questi petroglifi raccontato il processo di insediamento di questi popoli in Calabria, indicando l’erezione di almeno quattro siti pelasgici, due dei quali sarebbero già stati individuati: Placanica in provincia di Reggio Calabria, in particolare nelle grotte delle fate e dei Re, e appunto Nardodipace. Gli altri due potrebbero ergersi nel territorio di Serra San Bruno (VV) in località Monte Pecoraro e nei boschi di Stilo (RC) dove si trova la pietra del Signore in località Pietra del Caricatore. I Pelasgi migrarono verso queste terre portandosi dietro le spoglie dei loro Re e dei loro antenati via mare per poi seppellirle nelle grotte di Placanica, esplorate solo di recente e non per l’intera loro lunghezza e profondità. Le grotte che si trovano nei pressi del Monte Gallo custodirebbero la necropoli che ospitò temporaneamente i feretri di 110 sovrani Pelasgi, trasportati dai popoli del Mare da Egitto e Siria per trarli in salvo nel 6.700 a.C. da un diluvio. Tra questi feretri potrebbe esserci stato anche quello del leggendario Re Italo, che secondo le cronache di Tucidide e Strabone, regnò sulla odierna provincia di Catanzaro, chiamata in suo onore Italia, fondando la sua capitale a Pandosia Bruzia, che corrisponderebbe al territorio che va da Castrolibero ad Acri in provincia di Cosenza.

Il sito di Nardodipace, invece, era destinato alla resurrezione ed alla venerazione sepolcrale dei Re, indicato come il luogo di culto principale dei Popoli del Mare e tale da meritarsi l’appellativo di “Città della Porta” quale passaggio da una dimensione terrena ad una spirituale. I ritrovamenti megalitici dei siti A e B richiamarono quindi, anni dopo l’avvenuta decifrazione e mappatura dell’insediamento pelasgico, l’attenzione del prof. Raso che era ancora alla ricerca di riscontri concreti di questa mitica Città della Porta di cui aveva intuito l’esistenza attraverso lo studio de reperti Azzariti. Fu grande e collettivo lo stupore che sopravvenne quando furono individuati, su alcune pietre che formano il sito B, gli stessi segni incisi sulle tavolette della collezione Tolone.

Le popolazioni del Paleolitico e del Mesolitico volgevano lo sguardo al cielo solo per comprendere le migrazioni degli animali che dovevano cacciare per sopravvivere. L’uomo del Neolitico, invece, comincia a generare il culto della Madre Terra, appellandosi al Cielo, al Sole, alla Luna e agli Astri per carpire l’alternanza delle stagioni, per regolare la propria attività in base alle condizioni climatiche, allo scorrere del tempo e per calendarizzare la pianificazione agricola; è esattamente l’epoca in cui si inizia a coltivare la terra, a raccoglierne i frutti e ad allevare gli animali. I popoli megalitici, che come detto vissero dal tardo Neolitico all’Eneolitico, erano soliti edificare i loro insediamenti seguendo precise cognizioni astronomiche. I ricercatori locali, che seguivano le vicende relative alle attribuzioni sulla natura delle pietre, convinti che i Pelasgi abitatori delle Serre Joniche potessero avere cognizioni astronomiche proprie dell’epoca in cui vissero, commissionarono all’Istituto Brera di Milano una serie di sopralluoghi volti ad accertare se nei geositi di Sambuco e Ladi si potessero riscontrare elementi di questo genere. Le numerose misurazioni che l’archeo-astronomo Adriano Gaspani ha eseguito sui siti, lascerebbero supporre l’esistenza di linee astronomiche tali da riconoscere la funzione orientativa dei due complessi di pietre. In particolare nel geosito A, ossia quello in località Sambuco o Pietre incastellate, è stato sorprendente constatare che la fessura individuabile tra i due menhir eretti sull’altura, costituirebbe una sorta di mirino lunare attraverso il quale, nel Neolitico, era possibile osservare la levata del nostro satellite in un giorno specifico del suo ciclo orbitale, il lunistizio estremo inferiore (luna alla massima o dalla minima declinazione), quando cioè la luna sorgeva alla sua massima distanza angolare al di sopra dell’equatore celeste. Evento astronomico che ricorre precisamente ogni 18,61 anni. L’ultimo in ordine di tempo porta la data del 15 settembre 2006. Inoltre lungo la stessa direttrice poteva essere vista sorgere anche la costellazione della Croce del Sud (oggi non più visibile alle nostre latitudini) molto cara per motivi simbolici alle popolazioni megalitiche dei Popoli del Mare e ricorrente negli orientamenti dei nuraghi sardi e delle acropoli laziali. Tutti questi elementi arricchiscono ulteriormente la tesi del geologo Alessandro Guerricchio e darebbero credito a coloro che appellano i megaliti di Nardodipace con la denominazione di Stonehenge italiana.

Le teorie sui riferimenti astronomici dei triliti della piana di Ciano vanno inoltre letti alla luce delle incisioni che il prof. Raso ha studiato sia sui siti A e B che nelle tavolette della collezione Tolone Azzariti. In particolar modo il riferimento è, da un lato, alle rappresentazioni del sorgere del Sole e della Luna attraverso la stilizzazione di triangoli equilateri raffigurati sui reperti e incisi sulle pietre e, dall’altro, alla levata eliaca[4] di particolare stelle luminose nel firmamento come Sirio, stella più brillante della costellazione del Cane Maggiore, Vega della costellazione della Lira, Betelgeuse della costellazione di Orione. Lo stesso nome del capoluogo comunale di Nardodipace, Ciano, che con il vecchio abitato e le frazioni di Ragonà, Cassari e Santo Todaro forma l’attuale territorio, potrebbe essere legato a Giano (dal termine ianua – porta), quale divinità solare ed alter ego di Diana, divinità lunare. E se il prof. Raso ha ragione, allora Nardodipace è veramente la “Città della Porta”.


[1]Statuette, un astrolabio, una scultura raffigurante un re, un cono rovesciato con numerose incisioni, steli, dischi solari e molti altri oggetti.

[2]Un essere sceso dal cielo che sollevò le sorti della conoscenza dell’umanità dell’epoca e di cui si trovano tracce mitologiche in molte culture del pianeta.

[3]La calcarenite è un tipo di roccia sedimentaria clastica, formata da particelle calcaree delle dimensioni della sabbia

[4]Quando una stella sorge con il sole.





Fonti: https://calabriahistory.wordpress.com/2017/02/12/i-megaliti-di-nardodipace/#jp-carousel-341

https://www.youtube.com/watch?v=oOdWiimMgSg

https://www.youtube.com/watch?v=RlweKsGPMyA

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