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IL MISTERO DEL PASSO DYATLOV

  • Immagine del redattore: Gianni Ianni Palarchio
    Gianni Ianni Palarchio
  • 11 mag 2018
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 14 mag 2018


Foto scattata dagli investigatori che mostra lo stato in cui venne ritrovata la tenda del gruppo.

Martedì 19 febbraio 2008 il St.Petersburg Times, quotidiano russo in lingua inglese, pubblica un lungo, singolare articolo. Si tratta della ricostruzione circostanziata di uno strano incidente avvenuto in Unione Sovietica, quando falce e martello e cortina di ferro difendevano i confini nazionali con un sistema che si preoccupava di arginare e sconfiggere il grande male, l’Occidente.

Una strage di sciatori consumatasi in una zona sperduta tra le montagne degli Urali, per la precisione, sull’Otorten. Nove giovani fuggiti a perdifiato, seminudi, dal loro accampamento. Di corsa nel buio tagliente dei meno venti gradi della notte invernale. Verso la salvezza, forse. Di sicuro, verso l’assideramento. E verso la morte. Non è chiaro il perché. E ci sono altre cose che non tornano. La cosa probabilmente non torna nemmeno agli inquirenti, perché fanno in fretta, troppo in fretta, a chiudere il caso. “Decesso provocato da forza sconosciuta ed irresistibile” si sarebbe potuto leggere sul rapporto ufficiale. Ma tutti i documenti sull’Otorten spariscono dalla circolazione. Segretati e seppelliti tra i panni sporchi del regime, dormono il loro sonno infausto finché la Glasnost non demolisce i sigilli degli archivi di Stato, liberando i demoni rossi del rosso Cremlino. Misteri sopiti si risvegliano, e si infittiscono.

Igor Dyatlov, capo spedizione

Il 25 gennaio 1959, dal treno in sosta presso la modesta stazione di Ivdel, provincia settentrionale di Sverdlovsk Oblast, scende un gruppo di dieci giovani. Otto uomini e due donne, appartengono praticamente tutti al Politecnico degli Urali di Ekaterinburg. Un istituto che oggi si chiama Università Tecnica Statale degli Urali, ed è intitolata a Boris “Corvo Bianco” Yeltsin. Amanti dello sci di fondo, coltivano un’altra passione comune, quella delle escursioni invernali. Viaggi molto diffusi tra giovani scienziati ed ingegneri come loro, che ne approfittano per compiere veloci ricerche sul territorio che, al ritorno, frutteranno ai loro profili accademici un buon balzo avanti rispetto ai colleghi più pantofolai.

C’è anche chi, oltre allo scopo più direttamente didattico, fonde escursioni di natura marcatamente sportiva. E’ proprio questo il nostro caso. Igor Dyatlov (nella foto), studente della facoltà di Radionica e capo spedizione; Yuri Yudin, studente di Economia; Alexander Kolevatov, studente di Geotecnica; Rustem Slobodin, Georgyi Krivonischenko e Nikolay Tibo-Brignoles, ingegneri; Yury Doroshenko, studente di Scienze Politiche. Le uniche due donne del gruppo, Ludmila Dubinina, studente di Economia, e Zinaida (Zina) Kolmogorova, anch’essa studente della facoltà di Radionica. Alexander Zolotarev, il decimo, è una guida professionale ed un istruttore di sci. Si è accodato al gruppo di Dyatlov per aggiungere al suo status quei punti in più che gli avrebbero garantito il titolo di Istruttore esperto, tanto ambito tra le guide russe. E’ l’unico estraneo al team, caldamente raccomandato ai ragazzi da un amico dell’Associazione Sportiva.

Alcuni membri del gruppo a bordo del camion che li porterà nel villaggio da cui partirà la spedizione

I dieci trovano un camion diretto a Vizhay ed approfittano di un passaggio che li conduce nel villaggio in cui trascorreranno la notte. All’alba del 27 gennaio indossano gli sci e sono già in marcia verso Gora Otorten, lo sperone roccioso di un monte, il Kholat Syakhl, che nel dialetto delle tribù Mansi, che abitano la regione, ha il macabro significato di “Montagna dell’Uomo Morto” o "Montagna della morte". Ma loro sono giovani e spavaldi, e queste non sono che antiche leggende di cui sorridere. L’unico che non sembra avere molto di cui rallegrarsi è Yudin. Non si sente bene, è debole e di malumore. Rallenta la marcia e non riesce proprio a godersi la gita. Così, il 28 gennaio decide di fare dietrofront e tornare a Vizhay per rimettersi in forze. Se starà meglio in tempi brevi li raggiungerà da solo. Oppure, saranno gli altri a tornare a prenderlo una volta terminata l’escursione.

I diari e le macchine fotografiche ritrovati attorno al loro ultimo campo rendono possibile ricostruire il percorso della spedizione fino al giorno precedente all'incidente. Il 31 gennaio il gruppo arrivò sul bordo di un altopiano e iniziò a prepararsi per la salita. In una valle boscosa depositarono il cibo in eccesso e l'equipaggiamento che sarebbe dovuto servire per il viaggio di ritorno. Il giorno dopo, il 1º febbraio, gli escursionisti cominciarono a percorrere il passo. Sembra che avessero progettato di valicare il passo e accamparsi per la notte successiva dall'altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, che scaturì nell'inizio di una tempesta di neve, la visibilità calò di molto e persero l'orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholatčachl'. Quando capirono l'errore commesso, decisero di fermarsi e accamparsi dove si trovavano, sul pendio della montagna, probabilmente in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche. Sono le 4 del pomeriggio del 1 febbraio 1959. Non sanno, non possono sapere, che sarà il loro ultimo rifugio. Scattano fotografie, sorridono. Ammirando il paesaggio degli Urali imbiancati consumano la cena e le ultime energie, prima di ritirarsi in tenda. Alcuni crollano subito. Altri scrivono per riempire le pagine dei loro diari. Saranno le loro ultime note.

Il 12 febbraio è la data in cui il gruppo di Dyatlov dovrebbe fare ritorno a Vizhay e, di qui, inviare un telegramma ufficiale per comunicare l’avvenuto completamento dell’escursione. Ma all’ufficio postale della cittadina degli Urali le ore trascorrono e nessuno si presenta. Qualcuno, tuttavia, ricorda che il gruppo aveva pianificato anche l’ipotesi di estendere il soggiorno, posticipando il ritorno a due giorni più tardi. Ma neanche il 14 febbraio si vede nessuno. Ora le spiegazioni cominciano a latitare. Ma c’è sempre il beneficio del dubbio, la carta del ritardo, dei tanti imprevisti che possono far slittare la tabella di marcia. Ormai il calendario segna il 20 febbraio, e non si contano più le lamentele che i parenti dei ragazzi presentano all’Istituto Politecnico. La pressione è talmente alta che, per evitare che la situazione degeneri ulteriormente, la direzione si rivolge al governo per ottenere la costituzione ed il dislocamento di una missione di soccorso. Per tutta la successiva settimana, un pool misto di autorità civili e militari setaccia l’area in cerca di indizi. Si rovista invano tra i monti. I nove ragazzi sembrano spariti nel nulla. Poi, il pilota di un velivolo in ricognizione scorge qualcosa sul Cholatčachl'. Finalmente. E’ il 26 febbraio quando le squadre arrivano sul fianco orientale della Montagna. Sotto i loro piedi, giace in stato di abbandono quello che fino a qualche tempo prima era stato un accampamento. E' quello dei ragazzi. La tenda è semisepolta dalla neve, l’equipaggiamento è quasi tutto al suo posto. Ma la cosa strana è che abiti caldi, coperte, zaini, giacche a vento, pantaloni sono tutte ben riposte nel loro ultimo rifugio. La cosa ancora più inquietante è che su un lato della tenda, la parte sottovento, è lacerata in più punti con un coltello, uno squarcio abbastanza grande da permettere il passaggio dei ragazzi verso il nulla degli Urali. Più tardi si scoprirà che i tagli erano stati fatti dall'interno.

Dai brandelli di tenda che si agitano rigidi in balia del vento gelido, si poteva seguire una serie di impronte che si dirigevano verso i boschi vicini, una traccia netta che, però, dopo 500 metri scomparivano nella neve. Poi più nulla. Impronte per un totale di otto, forse nove persone. Alcune orme sono meno profonde ma più definite. Sono impronte di valenki (stivali soffici) o di calzini, forse addirittura di piedi nudi. La cosa non avrebbe senso, a meno che non si sia trattato di un fuga, come a voler scappare di corsa dall'attacco di qualcuno o di qualcosa.

Il gruppo di Dyatlov si prepara per la notte

Tra i soccorritori c’è chi inizia a provare una certa agitazione. A nord-est, a 1500 metri dal campo, dall'altro lato del passo, c’è un albero immenso. E’ un pino secolare, e nei pressi della sua base i ricercatori ritrovano tracce di legna carbonizzata, come se qualcuno avesse acceso un falò. Con orrore, i soccorritori scorgono poco più in là due corpi che giacciono nella neve. Sono Georgyi Krivonischenko e Yury Doroshenko. Scalzi e con indosso soltanto la biancheria, sembrano adagiati su un immenso lenzuolo di neve. Una coltre bianca sulla quale spiccano i rami spezzati dall'albero ad un’altezza di circa 5 metri da terra. Inoltre sulla corteccia, dai primi esami, vengono rilevate tracce di pelle ed altri tessuti biologici. Come se i due avessero tentato una disperata arrampicata per sfuggire ad un predatore. Continuano le ricerche e i soccorritori, percorsi trecento metri, trovano un altro cadavere. E’ Igor Dyatilov, il ventitreenne capo spedizione. Riverso sulla schiena con il capo rivolto in direzione del campo. In una mano stringe un ramo, mentre l’altro braccio è riverso sulla testa come ultimo, disperato tentativo di protezione. Per quanto si sforzino, i membri della squadra non riescono a darsi una spiegazione. Poi, a 180 metri appena da Igor, trovano Rustem Slobodin anche lui rivolto in direzione della tenda e con il viso sprofondato nella neve. Anche se una singolare frattura gli segna il cranio per un lunghezza totale di 17 centimetri, la lesione, secondo i patologi, non è di per sé sufficiente a provocare la morte. Dalla posizione di Slobodin, che sembra essersi trascinato con le ultime forze in direzione della tenda, si scorge un altro corpo. E’ Zina Kolmogorova. Intorno al suo cadavere, parecchie tracce di quello che a buon diritto potrebbe essere sangue. Successivi esami confermano la natura del liquido, ma al contempo stabiliscono che non è quello della ragazza.

A prima vista sembrerebbero morti assiderati, le mani bruciate dal clima rigido della notte uralica. Ma nessuno di loro è morto in pace. Tutti in pose dinamiche, come se avessero lottato con qualcosa, con un’ombra, con il vento. Gli altri quattro corpi non verranno scoperti subito. Per quanto le ricerche siano state intense, non sono stati scoperti che il 4 maggio successivo per puro caso, quando un incendio, sviluppatosi nella valle di un affluente del Lozvy, fa accorrere le autorità verso una fenditura stracolma di neve che si apre nel terreno. Qui, in un crepaccio sotto 4 metri abbondanti di neve, c’è quel che resta degli escursionisti che ancora mancano all'appello. Anche loro, come i primi cinque sfortunati sciatori, sono mezzi nudi, ma rispetto a quelli hanno qualche vestito in più addosso. Si potrebbe pensare che, per cercare di sopravvivere, abbiano prelevato qualche indumento dai compagni ormai morti. Alexander Kolevatov e Nikolay Tibo-Brignoles, che ha il cranio fracassato ed indossa due orologi (uno fermo alle 8:14 del mattino, l’altro alle 8:39). Alexander Zolotarev presenta fratture all'emicostato destro. Ludmila Dubinina ha un piede rozzamente fasciato dai pantaloni di lana di Georgyi Krivonishenko e il suo cappotto, così come il cappello, sono stranamente indossati da Zolotarev; anche lei presenta fratture simmetriche al costato e una delle costole si è conficcata, in un secondo tempo, nel cuore, causando una massiccia emorragia cardiovascolare dopo l’impatto. In più a Ludmila, in maniera veramente raccapricciante, è stata asportata la lingua, una parte della mascella ed entrambi gli occhi. Secondo il dottor Boris Vozrozhdenny la forza richiesta per provocare fratture simili a quelle rilevate sugli ultimi corpi ritrovati era estremamente elevata e la paragonò alla forza sviluppata da un incidente stradale. Eppure, nessuno presenta segni esterni di colpi. Le ultime quattro salme vengono esaminate in fretta, ed in fretta deposte nei feretri per restituirli alla terra.

Inizialmente si suppose che gli indigeni Mansi (nella foto) potevano aver attaccato e ucciso gli escursionisti per aver invaso il loro territorio, ma le indagini mostravano che la natura delle morti e la scena ritrovata non supportavano tale tesi. I traumi fatali non potevano essere stati provocati da un altro essere umano "perché la potenza dei colpi era stata troppo forte e al contempo non aveva danneggiato alcun tessuto molle" disse il dottor Boris Vozrozhdenny. Inoltre le impronte degli escursionisti, da soli, erano ben visibili e i corpi non mostravano alcun segno di colluttazione corpo a corpo.

Anche se la temperatura era molto rigida (tra i −25° e i −30°) con una tempesta di neve che infuriava, i corpi erano solo parzialmente vestiti. Alcuni avevano solo una scarpa, altri non le avevano affatto o indossavano solo i calzini. Una spiegazione a questo potrebbe essere data da un comportamento chiamato undressing paradossale, che si manifesta nel 25% dei morti per ipotermia. In tale fase, che tipicamente si verifica nel passaggio tra uno stato di ipotermia moderato ad uno grave, mentre il soggetto diventa disorientato confuso e aggressivo, tende a strapparsi i vestiti di dosso avvertendo una falsa sensazione di calore superficiale e finendo così per accelerare la perdita di calore corporeo. Dal momento che alcuni corpi vennero ritrovati avvolti in pezzi di vestiti stracciati non appartenenti a loro, si ipotizza che essi vennero tolti ai rispettivi appartenenti dopo la morte, in maniera tale da permettere ai sopravvissuti di coprirsi meglio.

A complicare le cose, sugli abiti di alcune vittime sono stati riscontrati alti livelli di radioattività. Altre testimonianze aumentano il mistero. Yuri Kuntsevich - 12enne nel 1959 - assistette ai funerali di 5 degli sciatori morti: ricorda che avevano la pelle scurissima, come tinta di marrone. E altri escursionisti, che in quegli stessi giorni stavano attraversando gli Urali  50 chilometri a sud dal luogo della strage, raccontano di aver visto, nella notte dell’incidente, strane sfere arancioni brillare nel cielo in direzione del Kholat Syakhl. Luci avvistate in seguito da decine di altre persone.

l verdetto finale fu che i membri del gruppo erano tutti morti a causa di una «irresistibile forza sconosciuta». L'inchiesta fu ufficialmente chiusa nel maggio 1959 per "assenza di colpevoli". Secondo alcune fonti i fascicoli furono mandati in un archivio segreto e le fotocopie del caso, con alcune parti comunque mancanti, furono rese disponibili solo negli anni novanta, ma altre smentiscono totalmente questi fatti, affermando che il caso non venne mai classificato e che le parti mancanti consistevano in una busta all'interno della quale c'era solo della comune corrispondenza.

Tra le ipotesi che fecero gli investigatori c'è quella di un pericolo sconosciuto e improvviso che i 9 malcapitati ritennero evidentemente mortale, tanto da farli uscire dalla tenda di corsa lasciandosi dietro cappotti, scarpe e provviste. E’ bene ricordare che i ragazzi, nonostante la giovane età, erano tutti esperti escursionisti, abituati a climi rigidi e ben consapevoli delle conseguenze di restare fuori dalla tenda a -30°C e con pochi vestiti addosso. Un'altra ipotesi avanzata è quella della "paranoia da valanga". I 9 avrebbero udito un rombo come di una valanga di neve e sarebbero scappati fra gli alberi cercando riparo, perdendosi nel buio della notte. Le radiazioni sui vestiti fecero pensare a test militari top secret attraverso la sperimentazione di un'arma segreta sovietica e le luci nel cielo ad un attacco di alieni. Qualcun altro pensò ad una "tempesta perfetta" con numerosi micro tornado di forza devastante che avrebbero costretto i 9 ad uscire dalla tenda per trovare riparo fra gli alberi. L’evento avrebbe inoltre causato la generazione di infrasuoni, frequenze inascoltabili dall'orecchio umano ma che avrebbero fatto cadere in uno stato confusionale tutti gli escursionisti. Senza sonno, senza respiro e con attacchi di panico, i nove del passo Dyatlov sarebbero caduti in preda ad uno stato folle e confusionale, che li avrebbe condotti alla morte.

Una tesi accattivante venne fornita nel 2014 dal controverso esploratore americano Mike Libecki che girò un documentario di sicura efficacia analizzando molte prove raccolte sul campo. Libecki, supportato da una giornalista russa e dalla fondazione Dyatlov, intervistò numerosi testimoni dei fatti tra i quali i primi soccorritori che ritrovarono l'accampamento dei nove sciatori. Questi, davanti alle telecamere, dissero che nei pressi della tenda videro delle grosse orme di piede, talmente grandi e profonde che non potevano essere di un essere umano. Poi le autorità russe li allontanarono dalla zona e di quelle orme non se ne parlò più. Ulteriori ricerche portarono Libecki a scoprire che i Mansi erano terrorizzati da una creatura che abitava "la montagna dei morti", alta quasi tre metri e di corporatura massiccia e ampio pelo su tutto il corpo, una creatura che i Mansi chiamano Menk, ma che è più conosciuta come Yeti. Ciò che accese la classica lampadina e che inquietò il mondo furono due prove che, se dimostrate, avrebbero dell'incredibile. La prima è la foto che vedete in apertura di questo capoverso. Come già detto, i nove escursionisti fuggirono dalla tenda lasciandosi dietro tutti gli effetti personali, comprese le macchine fotografiche. Una volta recuperate e sviluppati i rullini, tra le foto di giovialità e fatica della spedizione spunto fuori l'immagine di una strana creatura che si muove furtiva tra gli alberi. Ma ciò che fu più scioccante è quello che si riuscì a leggere in uno degli appunti della spedizione che, come per le macchine fotografiche, i ragazzi lasciarono nella tenda e che vennero resi pubblici sono negli anni novanta dopo la desecratazione dei dossier. Su quell'appunto c'era scritto in russo "ora sappiamo che l'uomo delle nevi esiste".


Il documentario di Libecki integrale


Fonti: http://www.terraincognitaweb.com/il-mistero-di-passo-dyatlov/

https://leggendemitimisteri.forumfree.it/?t=72232746 https://scienzamagia.eu/misteri-ufo/la-tragedia-del-passo-djatlov/

https://www.vanillamagazine.it/l-incidente-al-passo-dyatlov-il-piu-inquietante-mistero-alpino-del-900/

https://www.youtube.com/watch?v=wO_mgRt-zCs&t=1862s

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